Apparentemente, è impossibile che Grisha, l’uomo indolente e asociale che vive con la madre in un appartamento fatiscente, si sia reincarnato di secolo in secolo, di paese in paese, di corpo in corpo. Difficile anche credere che sono state le vite vissute quattrocento anni fa in un remoto villaggio ebraico dell’Est Europa, nella Venezia del Settecento, o nel Marocco dell’ottocento ad avergli lasciato le cicatrici di cui soffre oggi. Eppure, Grisha raccontando le sue varie vite, sostiene proprio questo. Per sua madre, immigrata in Israele dalla Russia, la reincarnazione è un’assurdità. Per lei, le vite narrate nel romanzo da suo figlio sono soltanto metafore che raccontano il trauma di emigrare in un nuovo paese. Nel suo esilarante racconto, le spiega una ad una, condividendo così la storia della sua famiglia sradicata. Madre e figlio si alternano nella narrazione e conducono una battaglia implacabile per il cuore del lettore. Ma chi vincerà: l’anima o il corpo, la fantasia o la realtà, reincarnazione o emigrazione? O sono forse queste la stessa cosa?